Haters: ovvero gli "odiatori" sul web e sui social

© by Antonello Camilotto


Attenzione a diffondere l'odio su internet. I cosiddetti "haters" ovvero gli "odiatori" che imperversano sul web e sui social, commentando e contestando con modalità aggressive, violente e offensive, rischiano serie conseguenze secondo le vigenti norme di legge.


Haters: chi sono


Il neologismo "haters" è utilizzato in Internet per identificare quei soggetti che, sul web o attraverso i social, manifestano atteggiamenti di odio, disprezzo e critiche che dovente sconfinano in vere e proprie offese (ad esempio di genere o di classe) e/o minacce rivolte ad altri utenti o nei confronti di personaggi più o meno noti.


Questi "leoni da tastiera", che quotidianamente riversano rabbia e odio verso gli altri su Internet, si trincerano dietro lo schermo del PC o dello smartphone, utilizzati come scudo con la convinzione che quanto accade o viene commesso nell'ambiente virtuale non abbia conseguenze o ricadute nella vita quotidiana "reale".


Ma il sentirsi invincibili è un grave errore, poiché il virtuale altro non è che una proiezione del reale, dietro cui ci sono persone vere e conseguenze serie poiché il web non rappresenta affatto una zona franca avulsa da ogni ripercussione. In sostanza, ciò che avviene su internet o sui social, tramite una connessione senza cavi, può avere serie e tangibili conseguenze.


In particolare, la legge trova applicazione nei confronti delle condotte poste in essere tramite internet e sovente la giurisprudenza è intervenuta a confermare che l'offesa e la denigrazione attuate sui social network o sul web hanno conseguenze anche penali. E non sarà possibile invocare a propria difesa la libertà di espressione poiché la legge non prevede sconti nei confronti chi diffonde l'odio.


Sono diversi i reati di cui comunemente può macchiarsi un hater: si va dalla diffamazione aggravata alle minacce o molestie, fino addirittura all'incitamento allodio razziale allo stalking.


Offese sui social network: ecco i rischi


Esprimere un pensiero o un'opinione, ad esempio, può costare una condanna per diffamazione, se ciò avviene con modalità lesive dell'altrui dignità, ignorando buon senso e correttezza.


Infatti, nonostante la libertà di espressione del pensiero sia costituzionalmente tutelata (ex art. 21 Cost.), ciò non significa che questa non abbia dei limiti e che possa operare sempre e comunque come scriminante. La critica, anche particolarmente aspra e forte, dovrà essere pertinente al fatto (dunque non generalista) e soprattutto continente.


In particolare, secondo la giurisprudenza, il limite della continenza nel diritto di critica è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato. In sostanza, non si potrà in alcun modo scriminare l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest'ultimo in quanto tale (cfr. ex multis, Cass. n. 11409/2015).


Haters e diffamazione


Uno degli atteggiamenti più diffusi da parte degli "haters" è proprio quello di rivolgersi agli altri utenti utilizzando frasi volutamente offensive e spesso addirittura diffamatorie. Parole usate talvolta con una eccessiva leggerezza, che sono idonee a far scattare la responsabilità penale degli autori e il conseguente obbligo di risarcire il danno prodotto.


L'art. 595 del codice penale punisce con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1032 euro, chiunque "comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione". Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è quella della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2065 euro.


In particolare, un linguaggio dispregiativo che si traduca in offese su internet alla reputazione altrui possono costare un'incriminazione per diffamazione aggravata. Il codice penale precisa che "se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro".


La diffamazione aggravata sui social network


La giurisprudenza, compresa quella di legittimità ha confermato il pugno duro contro coloro che utilizzano internet, e i social network in particolare, come una valvola di sfogo per scaricare rabbia, frustrazioni o sete di vendetta nei confronti di personaggi pubblici, ma anche conoscenti, colleghi o capi.


Ad esempio, si è giunti alla conclusione che anche la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook integra un'ipotesi di diffamazione aggravata, poiché ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone.


Ciò in quanto, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone e, inoltre, perché l'utilizzo di Facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione (cfr. Cass., n. 8328/2016).


Secondo parte della giurisprudenza, il reato può scattare anche nei confronti di chi semplicemente aggiunge al post originale un successivo commento, avente la medesima portata offensiva, in quanto elementi diffamatori aggiunti possono comportare una maggior diminuzione della reputazione della nella considerazione dei consociati (cfr. Trib. Campobasso, sent. n. 396/2017).


Sarà utile per il denunciante che vuole dimostrare l'avvenuta consumazione del reato munirsi di uno screenshot dello schermo, o anche di un video, nonché di testimonianze di coloro che hanno potuto leggere il contenuto del messaggio diffamatorio.


Nonostante il colpevole possa confidare in un'assoluzione per "particolare tenuità del fatto", qualora il giudice ritenga non gravi le conseguenze del suo comportamento, rimane comunque la possibilità per la vittima, lesa nel proprio onore e nella propria reputazione, di chiedere il risarcimento del danno in via civile.


Haters: attenzione alle minacce


Gli Haters rischiano anche di incorrere in altri reati, ad esempio quello di minaccia qualora dovesse prospettare ad altri la conseguenza di una propria credibile azione pericolosa (es. "Ti farò fare una brutta figura", "Ti vengo a prendere", "Ti uccido" ecc.).


Il codice penale punisce, a querela della persona offesa, chiunque minacci ad altri un danno ingiusto. La pena è quella della multa fino a euro 1.032. Qualora la minaccia sia grave o aggravata ex art. 339 c.p., la pena è della reclusione fino a un anno.


Il reato di molestie


Anche il reato di molestie può essere realizzato tramite internet e i social network. Questi ultimi, si rammenta, sono considerati ormai dalla giurisprudenza come luoghi aperti al pubblico a tutti gli effetti. In particolare, per la Cassazione (cfr. sent. n. 37596/2014) tale nozione andrebbe interpretata in modo estensivo: il social network, infatti, consente un numero indeterminato di accessi e visioni, rese possibili da un'evoluzione scientifica che il legislatore non era arrivato ad immaginare.


Ben può trovare applicazione, dunque, l'art. 660 c.p. che punisce chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo. La pena è quella dell'arresto fino a sei mesi o l'ammenda fino a 516 euro.


Cyberstalking


Le critiche dell'hater possono dunque portare all'incriminazione quando, pur essendo espresse in forma pacata e dunque lecita, siano divenute assillanti e ripetitive, e addirittura possono far scattare il reato di stalking che ormai la giurisprudenza sempre più spesso ritiene perpetrabile tramite i social network.


Le condotte, per essere incriminabili, dovranno aver procurato un evento di danno o di pericolo (alterazione delle abitudini di vita o perdurante grave stato di ansia o paura), essersi realizzate in fasi o momenti sufficientemente determinati ed essere prese in considerazione come componenti della condotta persecutoria nel suo complesso.


Nella sentenza n. 21407/2016 gli Ermellini hanno anche precisato che, ai fini dello stalking, rileva la reiterazione delle condotte, non l'episodio singolo, che anche se integrabile un reato autonomo, deve essere letto nell'ambito delle attività persecutorie nel loro complesso.


I crimini d'odio


Gli "haters", con i loro atteggiamenti, rischiano anche di incorrere nei c.d. crimini d'odio, dall'inglese "hate crimes", i quali ricomprendono gli atti di rilevanza penale che hanno alla base un movente discriminatorio, in relazione all'appartenenza (vera o presunta) a un gruppo sociale, identificato in base a etnia, religione, orientamento sessuale, dell'identità di genere o di particolari condizioni fisiche o psichiche.


La legge Mancino, n. 205/1993, sanziona proprio gesti, azioni e slogan aventi per scopo l'incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali.


In particolare, rischia la reclusione fino a un anno e sei mesi o una multa fino a 6mila euro chiunque faccia propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, oppure istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.


La pena diventa il carcere da 6 mesi a 4 anni per chi invece istiga, con qualunque modalità, a commettere o commette atti di violenza o di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.


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Autore: by Antonello Camilotto 14 agosto 2025
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Autore: by Antonello Camilotto 14 agosto 2025
Quando Neil Armstrong e Buzz Aldrin misero piede sulla superficie lunare nel 1969, la missione Apollo 11 era sostenuta da un’impressionante quantità di ingegneria, calcoli e tecnologia. Tuttavia, ciò che oggi sorprende di più non è tanto la complessità della missione, quanto il fatto che la potenza di calcolo del computer di bordo dell’Apollo Guidance Computer (AGC) fosse nettamente inferiore a quella di uno smartphone moderno. Il cervello della missione Apollo: l’AGC L’AGC, sviluppato dal MIT Instrumentation Laboratory, aveva specifiche che oggi sembrano quasi comiche: Processore: 1 MHz di clock Memoria: 2 KB di RAM e 36 KB di memoria a sola lettura (ROM) Prestazioni: circa 85.000 operazioni al secondo Eppure, quell’hardware limitato era sufficiente per guidare un’astronave dalla Terra alla Luna e ritorno, grazie a un software ottimizzato e a un utilizzo estremamente mirato delle risorse. Uno smartphone di oggi: un supercomputer in tasca Prendiamo ad esempio un comune smartphone di fascia media del 2025: Processore: multi-core a oltre 2,5 GHz RAM: 6-12 GB Memoria interna: 128-512 GB Prestazioni: miliardi di operazioni al secondo In termini puramente numerici, un moderno smartphone è milioni di volte più potente dell’AGC in velocità di calcolo, capacità di memoria e larghezza di banda. Perché allora è stato possibile andare sulla Luna con così poca potenza? La risposta sta nella differenza tra potenza grezza e progettazione ottimizzata: Gli ingegneri dell’epoca scrivevano codice estremamente efficiente, privo di sprechi. L’AGC eseguiva solo funzioni essenziali: calcoli di traiettoria, gestione dei sensori, correzioni di rotta. Gran parte del “lavoro” era affidata all’intelligenza umana, non a calcoli automatici continui. Oggi, invece, la potenza di calcolo dei nostri dispositivi è in gran parte usata per elaborazioni grafiche, interfacce complesse, app sempre in esecuzione e funzioni multimediali. Una riflessione finale Dire che “il nostro smartphone è più potente del computer della missione Apollo” è vero, ma rischia di essere fuorviante. La conquista della Luna non è stata una sfida di hardware, ma di ingegno, pianificazione e coraggio. Forse, la vera domanda non è “quanta potenza abbiamo in tasca?”, ma “cosa facciamo con essa?”.
Autore: by Antonello Camilotto 14 agosto 2025
Con l’esplosione delle videoconferenze negli ultimi anni, soprattutto durante i periodi di lockdown, è emerso un fenomeno tanto inquietante quanto fastidioso: lo Zoombombing. Il termine deriva dalla piattaforma Zoom, una delle più utilizzate a livello globale, ma oggi viene usato per indicare qualsiasi irruzione non autorizzata in una riunione online, indipendentemente dal servizio utilizzato. L’atto è semplice nella sua dinamica, ma spesso devastante nei suoi effetti: un individuo, non invitato, riesce ad accedere a una videochat privata e inizia a interrompere la conversazione, proiettare contenuti offensivi, pronunciare insulti o diffondere materiale inappropriato. In molti casi si tratta di scherzi di cattivo gusto, ma in altri episodi la situazione degenera in vere e proprie molestie digitali. Il fenomeno ha avuto il suo picco durante il 2020, quando scuole, università, aziende e persino eventi culturali si sono spostati online. Link pubblici o condivisi sui social senza protezione diventavano porte spalancate per chiunque volesse entrare. La semplicità di accesso, unita all’assenza iniziale di misure di sicurezza robuste, ha reso le piattaforme particolarmente vulnerabili. Casi emblematici e rischi legali Non sono mancati episodi di cronaca. In alcune scuole, lezioni virtuali sono state interrotte da intrusi che trasmettevano video violenti o pornografici, costringendo insegnanti e studenti a interrompere immediatamente l’attività. In altri contesti, riunioni aziendali riservate sono state sabotate, con possibili fughe di informazioni sensibili. Dal punto di vista legale, lo Zoombombing può configurarsi come violazione della privacy, accesso abusivo a sistemi informatici o, nei casi più gravi, diffusione di materiale illecito. In diversi paesi, Italia inclusa, tali azioni sono perseguibili penalmente. Perché avviene e come prevenirlo Alla base dello Zoombombing ci sono spesso motivazioni banali: desiderio di visibilità, noia, volontà di disturbare o provocare reazioni. Tuttavia, la facilità con cui può essere messo in atto lo rende appetibile anche per chi ha intenzioni malevole. Gli esperti di sicurezza digitale raccomandano alcune contromisure: Protezione con password: ogni riunione dovrebbe essere accessibile solo previa autenticazione. Sale d’attesa: funzione che consente all’organizzatore di ammettere manualmente ogni partecipante. Link privati: mai condividere i collegamenti in spazi pubblici o sui social. Aggiornamenti software: le piattaforme rilasciano regolarmente patch di sicurezza per correggere vulnerabilità. Moderazione attiva: nominare co-host in grado di espellere rapidamente eventuali intrusi. Uno specchio della fragilità digitale Lo Zoombombing non è soltanto un fastidio tecnico, ma il sintomo di una fragilità più ampia: la nostra dipendenza dalle comunicazioni online e la scarsa consapevolezza delle misure di protezione necessarie. In un’epoca in cui il lavoro da remoto e l’apprendimento a distanza sono sempre più diffusi, garantire la sicurezza delle interazioni virtuali è essenziale per tutelare non solo la produttività, ma anche la dignità e il benessere psicologico dei partecipanti. In definitiva, la prevenzione resta l’arma più efficace. Non basta affidarsi alla tecnologia: serve un cambiamento culturale che metta la sicurezza digitale al centro delle nostre abitudini online. Perché se è vero che il web ci unisce, è altrettanto vero che, senza difese adeguate, può spalancare la porta a ospiti indesiderati.
Autore: by Antonello Camilotto 14 agosto 2025
Quando si parla di Tor (The Onion Router), il pensiero corre subito a un simbolo di privacy, anonimato e libertà di espressione online. Eppure, la sua origine affonda le radici in un contesto molto diverso: un progetto sviluppato all’interno di agenzie militari statunitensi, con l’obiettivo iniziale di proteggere le comunicazioni governative sensibili. La parabola di Tor — dal laboratorio militare alla difesa globale dei diritti digitali — è una storia complessa, fatta di innovazioni tecnologiche, tensioni geopolitiche e battaglie per la libertà. Origini militari: la nascita dell’Onion Routing L’idea alla base di Tor prende forma a metà degli anni ’90 presso il Naval Research Laboratory (NRL), un centro di ricerca della Marina degli Stati Uniti. Il problema da risolvere era chiaro: garantire comunicazioni anonime e sicure in un contesto di crescente sorveglianza informatica. I ricercatori Paul Syverson, Michael G. Reed e David Goldschlag svilupparono un sistema chiamato Onion Routing, in cui i dati venivano incapsulati in più strati di crittografia (come una cipolla), passando attraverso nodi intermedi distribuiti nel mondo. Ogni nodo conosceva solo l’indirizzo del nodo precedente e di quello successivo, ma non l’intero percorso, rendendo quasi impossibile tracciare l’origine del traffico. L’apertura al pubblico: una mossa strategica Negli anni 2000, il progetto Onion Routing evolve in Tor, sostenuto dalla DARPA e poi finanziato da vari enti governativi. A questo punto emerge un paradosso: se solo il governo USA avesse usato Tor, sarebbe stato semplice identificarne il traffico come “sensibile”. La soluzione? Aprire il sistema a chiunque, rendendo più difficile distinguere tra utenti governativi e civili. Nel 2002 viene rilasciata la prima versione pubblica di Tor e, nel 2006, nasce la Tor Project Inc., un’organizzazione no-profit indipendente, che inizia a ricevere anche fondi da organizzazioni per i diritti digitali e fondazioni private. Dal controllo all’emancipazione: Tor come strumento di libertà Con l’avvento dei social media e la crescente sorveglianza statale e aziendale, Tor inizia a essere adottato da attivisti, giornalisti, dissidenti politici e semplici cittadini preoccupati per la propria privacy. Episodi chiave ne cementano la reputazione: Primavera Araba (2010-2012): attivisti in Egitto, Tunisia e Siria lo usano per comunicare senza rischiare l’identificazione. Rivelazioni di Edward Snowden (2013): confermano l’ampiezza della sorveglianza di massa, spingendo molti verso Tor. Accesso in paesi censurati: in Cina, Iran e altri stati autoritari, Tor diventa uno degli strumenti più efficaci per aggirare il “Great Firewall” e simili sistemi di censura. Ombre e controversie: il lato oscuro della privacy La protezione offerta da Tor non viene usata solo per cause nobili. La dark web, accessibile attraverso Tor, ospita anche mercati illeciti, forum criminali e attività di hacking. Questa ambiguità ha alimentato critiche, spingendo governi e forze dell’ordine a tentare di limitarne o monitorarne l’uso. Tuttavia, i sostenitori di Tor ribadiscono che la tecnologia è neutrale: è l’uso che ne fanno le persone a determinare il fine, e limitare lo strumento per le azioni di pochi significherebbe privare milioni di persone di un diritto fondamentale. Evoluzione tecnologica e sfide future Oggi Tor è una rete globale composta da migliaia di nodi gestiti da volontari. La tecnologia continua a evolversi per contrastare nuove forme di sorveglianza e censura, come: Bridges: nodi “non pubblici” che aiutano gli utenti in paesi fortemente censurati. Pluggable Transports: protocolli che mascherano il traffico Tor per sembrare “normale” traffico web. Progetti mobile: app e browser per smartphone che rendono Tor accessibile anche in mobilità. Le sfide rimangono imponenti: dall’aumento delle risorse necessarie per mantenere la rete veloce e stabile, fino al rischio di infiltrazioni governative nei nodi di uscita. La storia di Tor dimostra come una tecnologia nata in ambito militare possa trasformarsi in uno degli strumenti più importanti per la difesa della libertà digitale nel XXI secolo. Se da un lato le sue radici governative possono sorprendere, dall’altro la sua evoluzione testimonia che la tecnologia, una volta resa pubblica, può sfuggire al controllo dei suoi creatori e diventare patrimonio dell’umanità. ๏ปฟ In un’epoca in cui la sorveglianza è sempre più pervasiva, Tor non è solo un software: è un simbolo della possibilità di opporsi, proteggere la propria identità e rivendicare il diritto di comunicare senza paura.
Autore: by Antonello Camilotto 14 agosto 2025
Negli ultimi anni i social media sono diventati uno dei principali canali di informazione — e, allo stesso tempo, un terreno fertile per la disinformazione. L’ampiezza della loro portata, la velocità di condivisione e il meccanismo degli algoritmi rendono queste piattaforme estremamente efficaci nel far circolare contenuti, indipendentemente dalla loro veridicità. Meccanismi di propagazione La disinformazione si diffonde in modi diversi, spesso combinando più fattori: Condivisione virale: titoli sensazionalistici o notizie “scioccanti” spingono gli utenti a condividere impulsivamente senza verificare le fonti. Algoritmi di raccomandazione: le piattaforme privilegiano i contenuti che generano interazioni (like, commenti, condivisioni), favorendo anche post fuorvianti se riescono a suscitare emozioni forti. Echo chambers: le comunità online tendono a riunire persone con idee simili, creando bolle informative che rinforzano credenze preesistenti e riducono l’esposizione a punti di vista diversi. Bot e account falsi: automatismi e profili fasulli possono amplificare artificialmente un contenuto, facendolo apparire più popolare o credibile. Perché funziona La disinformazione prospera grazie a caratteristiche psicologiche e sociali: Bias cognitivi: come il confirmation bias, che ci porta a credere più facilmente a ciò che conferma le nostre opinioni. Emozioni forti: paura, indignazione e sorpresa aumentano la propensione alla condivisione. Overload informativo: la quantità enorme di contenuti spinge a una lettura rapida e poco critica. Autorevolezza percepita: se un contenuto proviene da una persona conosciuta o da un influencer, tende a essere considerato più attendibile. 3. Conseguenze sociali La diffusione di disinformazione non è solo un problema di verità o menzogna, ma ha effetti concreti: Polarizzazione politica e divisioni sociali. Erosione della fiducia nelle istituzioni e nei media tradizionali. Comportamenti dannosi, come la diffusione di cure mediche non verificate o la partecipazione a movimenti complottisti. Possibili soluzioni Ridurre la disinformazione richiede azioni coordinate: Educazione digitale e mediatica: sviluppare la capacità di verificare le fonti e riconoscere manipolazioni. Maggiore trasparenza algoritmica: rendere più chiaro come vengono selezionati e promossi i contenuti. Segnalazioni e fact-checking: integrare strumenti per segnalare contenuti falsi e collaborare con verificatori indipendenti. Responsabilità delle piattaforme: rafforzare politiche di moderazione e rimuovere sistematicamente i contenuti ingannevoli.
Autore: by Antonello Camilotto 13 agosto 2025
Tra le tante storie che circolano nel mondo dei videogiochi, poche hanno raggiunto lo status di mito come quella di Polybius. Secondo la leggenda urbana, nei primi anni ’80, in alcune sale giochi di Portland, Oregon, comparve un cabinato arcade mai visto prima. Il gioco, dal titolo enigmatico Polybius, avrebbe provocato effetti collaterali inquietanti sui giocatori: perdita di memoria, incubi ricorrenti, nausea, e persino comportamenti ossessivi. Il racconto prosegue con dettagli da spy-story: uomini in giacca e cravatta – identificati come agenti governativi – avrebbero regolarmente prelevato i dati delle macchine, non per scopi commerciali, ma per esperimenti di controllo mentale. Per alcuni, dietro il progetto ci sarebbe stata la CIA; per altri, un’agenzia governativa segreta. Tuttavia, a distanza di decenni, non è mai emersa alcuna prova concreta dell’esistenza di Polybius. Nessun cabinato originale è stato trovato, nessun documento ufficiale ne conferma lo sviluppo, e i presunti testimoni riportano versioni discordanti. Gli storici dei videogiochi ritengono che la storia sia nata dalla fusione di fatti reali – come test di prototipi nelle sale giochi e monitoraggi da parte delle autorità – con fantasie alimentate da internet e riviste specializzate. Oggi Polybius vive soprattutto come fenomeno di cultura pop: è stato citato in serie TV, fumetti, documentari e persino riprodotto da appassionati come gioco “ispirato” alla leggenda. La sua forza sta proprio nell’essere un mistero irrisolto, a metà strada tra paranormale, tecnologia e paranoia da Guerra Fredda. In definitiva, Polybius sembra più una storia nata per intrattenere e suggestionare che un vero esperimento di manipolazione mentale. Ma, come per tutte le leggende metropolitane, il dubbio resta… ed è forse questo il motivo per cui la sua fama continua a crescere.
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